Fake news. Ovvero, notizie false, “bufale” secondo il linguaggio che si è imposto ultimamente, o, secondo una definizione passata di moda, la cara e vecchia “disinformazione”. Comunque le si vogliano etichettare, in inglese o in italiano, sono uno dei trend del momento. Che sembra fare seguito, concettualmente, alla parola scelta dall’Oxford dictionary per rappresentare il 2016, quel “Post-Truth” che incorona un’era di incertezza informazionale.
Sono recentissime e tuttora piuttosto accese le polemiche in proposito, da quelle che hanno investito i social media all’indomani della vittoria di Trump (colpevole di essersi appoggiato nella sua campagna presidenziale alla galassia di fake news e meme tendenziosi partoriti da un’attivissima alt-right) alle recenti parole di Pitruzzella dell’Antitrust sulla necessità di un organismo di vigilanza sulle notizie a livello europeo.
Lo scopo? Politico, principalmente: contrastare tutti quei movimenti che rischiano di inquinare il naturale dibattito democratico alimentando campagne di paura e odio a colpi di notizie fraudolente. Parole a cui hanno fatto seguito quelle inferocite di Beppe Grillo, (che sembra aver preso la cosa sul personale) e che rispedisce al mittente le critiche e il “bavaglio al web” parlando invece di una stampa ufficiale “faziosa”.
Questo in sintesi il quadro in Italia. Ma le preoccupazioni a livello globale esistono e sono concrete. Chiunque navighi normalmente sui social si imbatte in notizie false, con discreta frequenza. Ma perchè diventano virali? Perchè un gran numero di persone le condivide e, presumibilmente, ci crede?
Fake news: uno studio aiuta a capire il fenomeno
Ad occuparsene recentemente un studio combinato tra la Columbia University e l’Università di Bloomington. Ma lo studio riprende le fila di uno studio effettuato 10 anni fa, che aveva verificato come circa il 70% di persone fosse abbastanza incline a considerare attendibili le notizie proposte dal proprio cerchio sociale. Questo un discrimine fondamentale: se le notizie provengono dalla nostra “social bubble”, verranno probabilmente accettate senza troppe perplessità.
A questo si aggiunga anche il dato ormai assodato (diversi studi lo evidenziano) che in generale sembriamo aver perso qualche “tacca” di capacità critica, e il confine tra quello che consideriamo vero o falso sembri essersi pericolosamente assottigliato.
Lo studio nota preliminarmente che l’efficacia e la viralità di una notizia non dipendano affatto dalla sua veridicità. Qualsiasi tipo di contenuto, a dispetto del fatto che sia vero o falso, ha la stessa potenzialità di diventare un trend. Specie le notizie di contenuto riguardante il gossip, o news che abbiano un elemento eclatante o allarmista.
A questo proposito si puo citare l’esempio di un sito di notizie completamente inventate, creato a scopo di studio, che avvisava con un disclaimer che si trattava di notizie false. Ebbene, le notizie venivano condivise ugualmente come vere. O il fatto che alcuni utenti, imperterriti, continuino a scambiare il geniale e malizioso mock-journalism di Lercio.it (che spesso gioca proprio sui meccanismi disfunzionali del giornalismo online) come fonte di informazione affidabile.
Fake news e clickbait
Chiunque ormai è abituato ad imbattersi (ad esempio su Facebook) in contenuti sensazionalistici, che solleticano gli umori del pubblico con titoli incompleti, fuorvianti, bizzarri, o immagini ingannevoli; e, a onor del vero, anche alcune testate autorevoli (ricordiamo che la stampa è decisamente in crisi dal punto di vista finanziario) si sono fin troppo adattate a questo nuovo tipo di comunicazione. Si tratta semplicemente di un modo anche troppo funzionale di guadagnare click e aumentare i propri introiti pubblicitari.
Il problema è che le tecnologie per produrre notizie false sono alla portata di tutti. Menzioniamo il caso di un ragazzo (un po’ intraprendente, un po’ incosciente) che raggiunse con un sito artigianale di notizie completamente inventante (su inesistenti e cruenti crimini commessi da extracomunitari) una viralità sensazionale. Condivisioni sull’ordine di svariate decine di migliaia per ogni singola notizia. Una volta scoperto (e incriminato), svelo’ candidamente la sua ricetta: aveva semplicemente intercettato una fobia collettiva e aveva pensato di alimentarla e sfruttarla per un piccolo guadagno personale.
Fake news: qualche soluzione?
I motivi perchè crediamo alle bufale (e contribuiamo alla loro allarmante diffusione) sono quindi di ordine psicologico, sociale e culturale. A questo si aggiunga il fatto che gli algortimi che regolano i feed dei social network non distinguono (almeno per ora) una notizia fasulla da una verificata, e le propongano senza filtri.
Un elemento cardine è psicologico, la già menzionata social bubble, cioè quel campo piuttosto omogeneo di convinzioni, amicizie e notizie all’interno del quale, per ragioni di risparmio cognitivo, viene meno il pensiero critico. All’interno di questi mondi virtuali, la disinformazione attecchisce facilmente perchè viene praticamente accettata immediatamente come vera.
Altro elemento da non trascurare sono i bot, ovvero gli account fasulli che grazie alle potenzialità del web si possono creare in gran numero e controllare con relativa facilità, veri e propri agglomerati di bufale, che ne aumentano scorrettamente la viralità naturale.
Facebook sta attivamente cercando una soluzione al problema per perfezionare il feed. Per Twitter esiste BotorNot, un tool per smascherare i falsi account. Twitter permette ora anche la verifica degli account in modo automatizzato, cosa che ha evitato piu’ di un equivoco o indebita appropriazione di identità.
Alcuni hanno suggerito di dare priorità alle notizie verificate all’interno dei social network secondo un ranking di affidabilità o bollini di qualità. In rete esistono instancabili “debunker” che hanno fatto della verifica della correttezza dell’informazione e del fact-checking una vera e propria professione, come il giornalista Paolo Attivissimo.
Altri, come gli autori dello studio, stanno testando dei tool (uno si chiama Hoaxy, per ora in fase beta) che avrebbe lo scopo di mostrare e capire la diffusione di notizie false, oltre che fornire una simulazione dove poter testare degli approcci per bloccarle. Insomma, il web non assiste passivamente al dilagare delle notizie inventate.
Ma anche gli autori dello studio che abbiamo menzionato all’inizio sembrano d’accordo con qualcosa di simile a quello proposto da Pitruzzella: servirebbe un team di sociologi, aziende che si occupano di internet, giornalisti e informatici che lavorino insieme per ostacolare questo pericoloso lato oscuro del web.